Si può essere insoddisfatti e al contempo felici?
L’insoddisfazione è una lama a doppio taglio. Da un lato offre uno stimolo per raggiungere degli obiettivi. Dall’altro può diventare una spirale involutiva. Una rete invisibile che blocca sempre più l’iniziativa personale. Un peso che schiaccia.
L’esperienza dell’insoddisfazione è comune a tutti. Ma come fare a trasformarla in una risorsa per la nostra crescita e non piuttosto a rimanerne schiacciati?
Da praticanti di Aikido, bisogna sforzarci di mettere al centro questo benedetto “ki” (氣). Su che cosa sia il ki, hanno scritto in tantissimi.
Qui ci piace ricordare una frase di Itsuo Tsuda: “il ki muore quando prende forma”.
Sotto questo punto di vista, verrebbe da dire che tutti noi abbiamo praticato “Aido”. Ovvero, soltanto e sempre “forma”. Resta da capire se mai siamo riusciti a praticare “Aikido”.
Ovviamente la risposta spontanea di fronte a questa provocazione sarà: “Io pratico Aikido! Ma Tizio, Caio, Sempronia…Uh, come sono rimasti solo nella forma, poveri decerebrati”.
Questa non è una riflessione che si limita solo alla pratica dell’Aikido. Se siamo sufficientemente onesti, riguarda ogni percorso e ogni ambito in cui un essere umano possa trovarsi a vivere.
Relazioni, lavoro, routine… Certamente ci sono soddisfazioni. Certamente ci sono insoddisfazioni.
Che tipo di stimolo c’è dietro l’insoddisfazione? E come riconoscere se si tratti di uno stimolo positivo o meno?
Il sonno è uno stimolo universale. Se prende la “forma” del dormire, lo stimolo cessa di esistere. Eppure -pensiamo agli stati depressivi- esistono numerose forme di stanchezza cronica in cui lo stimolo diventa un rifugio e non l’opportunità per un sonno davvero ristoratore.
L’esempio del sonno è uno dei tanti che possiamo usare per iniziare a riconoscere il bivio che si pone di fronte all’insoddisfazione.
Se di fronte all’insoddisfazione cerchiamo un rifugio, allora scivoleremo lentamente nella costruzione di una illusione parallela alla realtà. E magari ci convinceremo di aver “esteso la zona di comfort” quando in realtà stiamo costruendo un bozzolo sempre più stretto. Sempre più impenetrabile.
Ecco alcuni indicatori che qualcosa sta degenerando. Non è una lista esaustiva ma è qualcosa che abbiamo provato sulla nostra pelle:
– pratichiamo sempre con le stesse persone ed evitiamo accuratamente alcuni;
– ci rifugiamo in pensieri, immagini e opinioni su noi stessi e gli altri;
– pretendiamo che il nostro ruolo, il nostro grado, il nostro titolo sia riconosciuto e sovente finiamo col dire “non sono compreso/rispettato”;
– la costanza nella pratica ci pesa ma ci sentiamo ancora peggio e in colpa se ogni tanto non andiamo ad allenarci;
– abbiamo routine stereotipate di compensazione rispetto all’insoddisfazione (avete presente la scena classica dei film del barattolo di gelato di fronte alla tv dopo una delusione d’amore? Ognuno ha il suo barattolo);
– diventiamo iperattivi o spenti, più mosci di una medusa spiaggiata. Funzioniamo a corrente alternata;
– non siamo sereni.
Che fare?
Lo stimolo che c’è dietro l’insoddisfazione è sempre un richiamo. Un’esigenza profonda di passare dalla complessità alla semplicità. Di riuscire a scomporre la frammentazione in cui siamo immersi negli elementi necessari, riconoscendoli. E di liberarsi delle inutili sovrastrutture.
Per quanto questo richiamo sia forte, spesso tendiamo a soffocarlo nelle nostre routine, rifugiandoci come detto prima in illusioni. Perché? Perché, non conoscendo ciò che è necessario, ci convinciamo che ciò che è accessorio sia di vitale importanza.
Per questo motivo siamo di solito così restii a fermarci a cercare ciò che è semplice. Perché se tirassimo improvvisamente il freno a mano, saremmo costretti a perdere la presa su tutto ciò che conosciamo e tutto ciò che pensiamo di essere.
Scoprire chi siamo -e chi possiamo essere- fa paura.
Allora ci rifugiamo in mille attività, convinti che da questo surplus di impegno -allenamenti, formazioni, attività, preparazione, seminari, meditazione- venga in automatico la risposta alla complessità.
Quindi, ecco alcuni indicatori per comprendere come trasformare l’insoddisfazione in uno strumento di crescita:
– quali sono i miei “perché”? Scopro quali sono i miei valori e li distinguo da quelli che altri proiettano su me. Magari scopro che non ho dei perché miei. Bene: si ricomincia da lì;
– riscopro il valore della gratitudine. Nel processo dalla complessità alla semplicità individuo quegli elementi che emergono (nella pratica, nelle relazioni, nelle sfide) e di cui sono contento. E ci investo sopra;
– esploro le alternative. Se la mia quotidianità non mi soddisfa, forse è il momento di cambiare. Cambiare prospettive, abitudini e attitudini, provando a uscire dalle mie routine;
– gli ambienti che frequento mi aiutano davvero a fare questo passaggio dalla complessità alla semplicità? A volte sì, spesso no. Circondiamoci di persone che siano sinceramente interessate al nostro bene. Il che significa che a volte dobbiamo lasciar andare frequentazioni che in fondo il nostro bene non lo fanno;
– quello che faccio, per quanto difficile, mi rende sereno? Costruisce intorno a me un clima di serenità? Se sì, abbiamo trovato il nostro Eldorado. Se la risposta è no, ricordiamoci che un mondo in cui io sono sereno e le persone intorno a me, no, forse è un mondo in cui la mia serenità non è così stabile.
Pensiamo quindi se la nostra pratica è un allenamento ad una sana insoddisfazione. Se davvero facciamo smuovere questo invisibile “ki” o se siamo degli “Aidoka”, perfetti nelle forme, vuoti nei perché.
Guardiamoci allo specchio dopo un allenamento, dopo una stagione e valutiamo se siamo sereni e contenti, o se siamo solo stanchi.
Contempliamo la nostra sublime marzialità da dopolavoristi e consideriamo se abbiamo messo uno strato di cemento in più sul nostro bozzolo o se abbiamo scoperto nuovi orizzonti.
Se facciamo tacere la risposta immediata: “Certo, io pratico Aikido! Ma Tizio, Caio, Sempronia…Uh, come sono rimasti solo nella forma, poveri decerebrati”, sicuramente sentiremo una voce nuova e potremo ripartire.
Insoddisfatti e felici.
Disclaimer: foto di Anemone123 da Pixabay